La solitudine dei comuni minori di fronte alle sfide del dopo-accoglienza dei rifugiati

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Irene Ponzo

Vicedirettrice di FIERI | ponzo@fieri.it

La mancanza di strategie per l’integrazione dei rifugiati fuori dalle grandi città

A lungo l’immigrazione nei comuni minori non è stata percepita come un problema, nonostante i numeri siano consistenti da oltre un decennio. Già  in  occasione  del  15° Censimento  della  Popolazione  realizzato  nel  2011,  il  70  per  cento  degli stranieri  in  Italia  risiedeva  in  un  comune  sotto  i  100.000  abitanti. Per lungo tempo si è trattato infatti di un’immigrazione per ricongiungimento familiare o da lavoro, sovente successiva a una permanenza nelle grandi città o inserita in solide catene migratorie. Le questioni che le autorità locali si trovavano ad affrontare erano quelle legati ai documenti o, al più, all’integrazione scolastica.

Tutto è cambiato quando ad arrivare non sono stati solo più lavoratori che seguivano le opportunità di impiego e sposi che si ricongiungevano al consorte, ma anche rifugiati. Con l’aumento dei flussi misti a partire dal 2014 e, soprattutto, con l’Intesa  tra  il  Governo,  le  Regioni  e  gli  Enti  locali siglata nel luglio di quello stesso anno per promuovere un’accoglienza dispersa sul territorio, i rifugiati sono stati trasferiti dalle coste italiane ai centri di accoglienza situati nei comuni di tutte le dimensioni, grandi città ma anche piccolissimi centri. Si è trattato di una decisione che ha goduto del plauso generale, tanto più dopo il fallimentare esito dell’Emergenza Nord Africa che aveva visto i rifugiati, ospitati in strutture di grandi dimensioni concentrate nelle principali città italiane, uscirne dopo due anni senza lavoro e senza casa e finendo in alcuni casi  per occupare edifici abbandonati. Non si sospettava, allora, che dopo quella storica decisione, i comuni medi e piccoli sarebbero stati lasciati soli a gestire il dopo-accoglienza. L’idea di favorire l’insediamento dei rifugiati fuori dalle grandi città non è stata infatti accompagnata da una strategia che tenesse conto delle peculiarità di questi territori.

A quel tempo, in quei comuni, i soggetti pubblici e privati che avevano sviluppato competenze sui temi dell’integrazione erano pochi, pochissimi, alle volte nessuno. Questa situazione era il risultato di una doppia dinamica: da una parte, fino ad allora l’immigrazione non aveva posto particolari sfide, per cui non si era avvertito il bisogno di mobilitare consistenti risorse economiche e umane; dall’altra, gli enti locali non hanno nessun obbligo istituzionale in questo settore. A partire dalla riforma costituzionale del 2001, infatti, se e come promuovere l’integrazione è una decisione in capo alle Regioni, la maggior parte delle quali ha volentieri accantonato la questione, limitandosi a sporadici atti simbolici. In questo quadro, i Comuni sono di fatto liberi di decidere se intervenire o meno per promuovere l’inclusione dei migranti. Allo stesso tempo, non ricevono fondi strutturali destinati a tale scopo: se scelgono di agire, devono recuperare le risorse partecipando a bandi emessi per lo più da governo centrale, la gran parte dei quali finanziati col Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (prima Fondo Europeo per l’Integrazione e Fondo Europeo per i Rifugiati). I Comuni italiani si trovano dunque nella peculiare situazione di godere di una totale autonomia politica dai livelli di governo superiori e, allo stesso, di dipendere economicamente dai bandi da questi emessi per quanto riguarda gli interventi relativi all’immigrazione. Non solo, accedere a quei fondi richiede lo sviluppo di competenze sull’immigrazione così come sulla progettazione mentre la costruzione di servizi continuativi necessita di strategie per assemblare progetti della durata di un paio di anni al massimo e per adattarsi alle priorità poste di volta in volta dai singoli bandi. Insomma, una gran fatica. In queste circostanze, i soggetti locali tendono a mobilitarsi solo quando percepiscono dei problemi o sono incalzati da richieste di intervento. E, anche in questi casi, la volontà politica diventa dirimente.


Casi esemplari di percorsi divergenti: Cuneo e Novara

Cuneo e Novara, città del Piemonte studiate da FIERI nell’ambito del progetto europeo Whole-COMM[1], esemplificano bene due dinamiche tipiche dei comuni medi[1], sviluppate in risposta al moltiplicarsi della popolazione arrivata tramite il canale dell’asilo.

Tabella 1 – Incidenza della popolazione straniera

  Novara Cuneo Piemonte
Percentuale di popolazione straniera 01/01/2012 11,2% 8,9% 8,3%
Percentuale di popolazione straniera nel 01/01/2022 15,4% 12,2% 9,8%

Si tratta di due città che registrano da tempo un’incidenza significativa di stranieri (Tabella 1), grazie ai loro mercati del lavoro relativamente dinamici e attrattivi. Non sono certo stati i rifugiati ad aumentare significativamente la percentuale di stranieri residenti, ma a moltiplicare le sfide sì. Non si tratta infatti di persone che sono arrivate sul territorio perché c’era un lavoro ad aspettarle o parenti pronti ad ospitarle e offrire loro sostegno. Sono in larga parte persone che avrebbero voluto andare altrove, ma il Regolamento di Dublino ha impedito loro di farlo. Si tratta di persone che, uscite dalle strutture di accoglienza, hanno iniziato a competere con i migranti di vecchio insediamento in settori come l’agricoltura e la logistica, accettando condizioni di lavoro più svantaggiose. Persone che non di rado hanno pochi anni di scuola alle spalle e, dunque, competenze molto fragili, su cui è difficilissimo innestare una seria formazione professionale o la tanto citata riqualificazione (reskilling). Persone che sovente restano povere anche quando lavorano e, in assenza di una rete sociale di sostegno, finiscono magari a dormire per strada.

I primi a reagire, in entrambi i territori, sono stati i soggetti del privato sociale. A Cuneo hanno trovato un interlocutore nel Comune, da tempo governato da liste civiche afferenti alla sinistra moderata, e si è iniziato un percorso condiviso, ancora in costruzione, ma in rapida evoluzione. Prima l’adesione del Comune di Cuneo allo SPRAR (ora SAI) provinciale e, a partire dal 2016, il suo coordinamento. Poi l’apertura dei servizi SPRAR a tutta la popolazione straniera e non solo alle persone ospitate nelle strutture di accoglienza. Quando i vecchi lavoratori stagionali nell’agricoltura provenienti dal Nord Africa, l’Est Europa e i Balcani hanno cominciato a essere sostituiti dai rifugiati dell’Africa Subsahariana e i datori di lavoro sono diventati molto meno solleciti ad offrire loro una sistemazione, Cuneo ha prima rafforzato le accoglienze a bassa soglia e ha poi offerto una sistemazione in appartamenti condivisi grazie al progetto FAMI Buona Terra coordinato dalla Regione Piemonte. A questo si sono affiancati altri progetti FAMI sulla formazione professionale e linguistica, l’inserimento lavorativo e abitativo, il contrasto allo sfruttamento e alle discriminazioni. Il servizio stranieri è stato infine radicalmente ripensato a partire dal 2021 e ora raccoglie e coordina i servizi delle varie progettualità, favorendo così il coordinamento delle diverse azioni con notevoli vantaggi sia per i migranti, sia per gli operatori. Ma non tutto va bene: le relazioni tra nuovi arrivati e residenti storici sono ancora poche, la discriminazione ancora diffusa, specialmente nel mercato abitativo, le tensioni crescenti in alcune zone della città, come l’isolato intorno alla stazione ferroviaria. Ma il nuovo servizio stranieri ha anche un’Area Intercultura, ancora in via di consolidamento, che esprime la volontà di agire anche su questo fronte.

Anche a Novara il privato sociale si è mobilitato, ma non ha trovato un ente locale pronto a raccogliere le sollecitazioni, a coordinare le iniziative, a mettere a sistema le risorse, ad attrarne di nuove tramite la partecipazione ai bandi. Il Comune, tradizionalmente conservatore, è sostanzialmente assente sui temi legati alle migrazioni, con la sola eccezione dei minori non accompagnati, su cui gli obblighi degli enti locali sono chiari e ineludibili. La maggioranza di centrosinistra che ha governato la città tra il 2011 e il 2016 ha tentato di cambiare rotta, arrivando persino a istituire il primo SPRAR della provincia, chiuso però pochi mesi dopo l’apertura dalla giunta a guida leghista che nel frattempo aveva riconquistato il Palazzo Comunale. In un paese come l’Italia può infatti succedere che in una città con quasi un sesto dei residenti stranieri e una quota importante di rifugiati[3], le autorità locali possano evitare di sviluppare interventi a sostegno dell’integrazione. Il Comune di Novara non è infatti venuto meno a nessun obbligo. Anzi, potrebbe vantare la coerenza dell’azione del governo locale col programma elettorale dei partiti di maggioranza. La recente massiccia mobilitazione a favore dei rifugiati ucraini conferma la discrezionalità totale – e orientata su base etnica – dell’intervento pubblico a livello locale.

Dobbiamo chiederci fino a che punto abbia senso che gli enti locali decidano se e cosa fare su questioni di importanza strategica per la coesione sociale e lo sviluppo locale. Dobbiamo domandarci se il peso considerevole del colore politico nella governance locale dell’integrazione sia un indice di una democrazia sana o il lasciapassare per politiche pre-moderne di matrice etnica. E un governo nazionale può davvero favorire l’insediamento di una popolazione fragile fuori dalle grande città e poi disinteressarsi delle conseguenze? Evidentemente sì, visto che i temi accennati qui sono assenti dal dibattito nazionale; ma i costi in termini di credibilità delle istituzioni, pur nascosti, sono reali e duraturi.


[1] Il lavoro di campo è stato fatto da Irene Ponzo a Cuneo e Orlando De Gregorio a Novara. Un report di dettaglio sarà pubblicato a breve sul sito del progetto, nella sezione Working paper: https://whole-comm.eu/category/working-papers/

[2] In base alle definizioni ISTAT, i comuni medi sono quelli con una popolazione compresa tra i 5.000 e i 250.000 abitanti. A gennaio 2022, Cuneo ne conta 56.000 abitanti e Novara 102.000.

[3] Il numero di richiedenti asilo ospitati nei CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) di Novara è passato da 215 nel 2014, a 763 nel 2015, a 1.190 nel 2016.

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